Nella parte alta dell’isola, che ha quattro burroni erbosi (quelli con le rocce stanno ad ovest), si trovano il museo, la cappella, la piscina. Le tre costruzioni sono moderne, angolari, lisce, di pietra rozza. La pietra, come capita spesso, sembra una cattiva imitazione e non armonizza perfettamente con lo stile.


La cappella è una cassa oblunga, schiacciata (questo la fa sembrare molto lunga). La piscina è ben costruita, ma, siccome sta a livello del suolo, si riempie inevitabilmente di vipere, rane, rospi e insetti acquatici. Il museo è un edificio grande, di tre piani, il tetto non è visibile; ha un corridoio sul davanti, uno più piccolo sul retro ed una torre cilindrica.
Lo trovai aperto; mi ci insediai immediatamente. Lo chiamo museo perché così lo chiamava il mercante italiano. Ma per quali ragioni? Chissà se lui stesso le conosce. Potrebbe essere uno splendido hotel, per una cinquantina di persone, o un sanatorio.


Ha una hall con biblioteche inesauribili e deficienti; contengono solo romanzi, poesie, teatro (se si esclude il libricino – Belidor1: Travaux-Le Moulin Perse- Parigi 1937 – che stava sopra una mensola di marmo verde e che ora ingombra una tasca dei miei pantaloni stracciati. Lo presi a causa del nome di “Belidor”, che mi sembrò strano e perché mi chiesi se il capitolo Moulin Perse avrebbe spiegato questo mulino che si trova negli acquitrini). Percorsi i ripiani cercando spunti per alcune ricerche interrotte dal processo e che nella solitudine dell’isola provai a continuare (credo che perdiamo l’immortalità perché la resistenza alla morte non si è evoluta; i perfezionamenti a riguardo insistono nella prima idea, rudimentale: mantenere vivo tutto il corpo. Bisognerebbe puntare sulla conservazione di ciò che riguarda la coscienza).
Nella hall, le pareti sono di marmo rosa, con alcune lesene verdi, come colonne incassate. Le finestre di vetro azzurro, raggiungerebbero il primo piano della mia casa natale. Quattro calici di albastro, nei quali potrebbero nascondersi quattro mezze dozzine di uomini, irradiano luce elettrica. I libri migliorano un poco l’arredamento. Un porta dà al corridoio; un’altra al salone rotondo; un’altra più piccola, chiusa da un paravento, alla scala a chiocciola.
Nel corridoio si trova la scala principale, di stucco e coperta da un tappeto. Ci sono sedie di paglia e le pareti sono coperte di libri.


La sala da pranzo è di circa sedici metri per dodici. In ciascuna parete, ci sono triple colonne di mogano sovrastate da delle terrazze che sono come palchi per quattro divinità sedute – una in ciascun palco – semi-indiane, semi-egiziane, color ocra, di terracotta; sono tre volte più grandi di un uomo; le circondano piante di gesso dalle foglie scure e prominenti. Sotto alle terrazze ci sono grandi pannelli con dei disegni di Fuyita, che stonano alquanto.
Il pavimento della sala rotonda è un acquario. In invisibili casse di vetro immerse nell’acqua, ci sono delle lampade elettriche (l’unica illuminazione di questa stanza senza finestre). Ricordo il luogo con schifo. Al mio arrivo c’erano centinaia di pesci morti. Tirarli fuori di lì fu un’operazione orripilante; ho lasciato scorrere l’acqua per giorni e giorni però quando vado lì prendo sempre l’odore di pesce marcio (che ricorda le spiagge della patria, con le sue acque torbide per la moltitudine di pesci, vivi o morti, che saltano contaminando l’aria di vaste zone, poi la popolazione sconsolata li sotterra). Con il pavimento illuminato e le colonne di lacca nera che stanno tutte intorno, in questa stanza uno ha l’impressione di camminare magicamente su uno stagno in mezzo a un bosco. Due aperture danno una alla hall e una ad una sala piccola, verde, con un pianoforte, un fonografo e un paravento di specchi di venti ante o più.
Le stanze private sono moderne, suntuose, sgradevoli. Ce ne sono quindici. Nella mia feci un opera devastatrice che diede uno scarso risultato. Tolsi i quadri – di Picasso – i vetri fumé, le fodere firmate, ma vissi in una scomoda


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