Feci le mie scoperte nei sotterranei in due occasioni analoghe. Nella prima – avevano cominciato a scarseggiare le provviste della dispensa – cercavo alimenti e scoprii il macchinario. Quando percorsi il sotterraneo scoprii che nessuna parete aveva il lucernaio che avevo visto da fuori, con i vetri spessi e protetto da un’inferriata, mezzo nascosto tra i rami di una conifera. Come se fossi preso da una discussione con qualcuno che sosteneva che questo abbaino era irreale, visto in un sogno, uscii a verificare se c’era ancora.
Lo vidi di nuovo. Scesi nel sotterraneo ed ebbi una grande difficoltà
per orientarmi e trovare, da dentro, il posto che corrispondeva al lucernaio.
Era dall’altro lato della parete. Cercai fessure, porte segrete. La parete
era molto liscia e molto solida. Pensai che in un’isola, in un luogo murato
doveva esserci un tesoro; ma decisi di rompere la parete ed entrare perché
mi sembrò più verosimile che ci fosse, se non mitragliatori e
munizioni, un deposito di viveri.
Con il ferro che serviva per sbarrare una porta, e una crescente stanchezza,
aprii un foro: si intravvide una chiarezza celeste. Lavorai molto e quella stesso
pomeriggio vi entrai. La mia prima sensazione non fu la delusione di non trovare
viveri, né il sollievo di riconoscere una pompa per l’estrazione
dell’acqua e un generatore di corrente, ma un’ammirazione lunga
e piacevole: le pareti, il tetto, il pavimento erano di porcellana celeste e
perfino la stessa aria (in quella stanza che non comunicava con la luce del
giorno se non con un abbaino alto e nascosto tra i rami di un albero) aveva
la diafanità celeste e profonda della spuma delle cascate.
Capisco molto poco di motori, ma non ci impiegai molto per metterli in moto.
Quando finisce l’acqua piovana, faccio lavorare la pompa. Tutto questo
mi ha sorpreso: per me e per la semplicità e per il buono stato delle
macchine. Non ignoro che per riparare una spaccatura, mi rassegno. Sono talmente
inetto che non ho ancora potuto comprendere lo scopo di alcuni motori verdi
che stanno nella stessa stanza, nè di quel rullo con alette che sta nei
pantani del sud (vincolato con il sotterraneo attraverso un tubo di ferro; se
non si trovasse così lontano dalla costa lo relazionerei con le maree,
potrei supporre che serve per caricare gli accumulatori che dovrebbe avere il
generatore). A causa di questa inettitudine faccio molta economia; non metto
i motori in funzionamento se non quando è indispensabile.
Tuttavia, in un’occasione, tutte le luci del museo rimasero accese l’intera
notte. Fu la seconda volta che feci scoperte nei sotterranei.
Io ero malato. Speravo che in qualche parte del museo ci fosse un mobile con
farmaci; sopra non c’era niente; scesi nei sotterranei e… quella
notte ignorai la mia malattia, dimenticai che gli orrori che mi stavano succedendo,
accadono solo nei sogni. Scoprii una porta segreta, una scala, un secondo sotterraneo.
Entrai in una stanza poliedrica – assomigliava ad alcuni rifugi contro
i bombardamenti che vidi al cinema- con le pareti ricoperte da lastre di due
tipi – alcune di un materiale tipo il sughero, altre di marmo –
distribuite simmetricamente. Feci un passo; nelle arcate di pietra, in otto
direzioni vidi ripetersi, come in specchi, otto volte la stessa stanza. Poi
sentii molti passi, terribilmente chiari, attorno a me, sopra, sotto, camminando
nel museo. Avanzai un poco di più: i rumori cessarono, come in un ambiente
di neve, come nelle fredde alture del Venezuela.
Salii la scala. C’era silenzio, il rumore solitario del mare, l’immobilità
e fughe di millepiedi. Temetti una invasione di fantasmi, un’invasione
di poliziotti, meno verosimile. Passai ore tra le tende, angosciato dal nascondiglio
che avevo scelto (mi si poteva scorgere da fuori; se volevo scappare da qualcuno
che si trovasse nella stanza dovevo aprire la finestra) Poi mi feci coraggio
e registrai la casa, ma continuavo ad essere inquieto. Avevo sentito che mi
avevano circondato dei passi nitidi, a differenti altezze, mobili,
All’alba scesi nuovamente nel sotterraneo. Mi circondarono gli stessi
passi, da vicino e da lontano. Ma questa volta li capii. Infastidito, continuai
percorrendo il secondo sotterraneo scortato ad intermittenza dallo stormo di
echi, moltiplicatamente solo. Ci sono nove camere uguali; altre cinque nel sotterraneo
più giù. Sembrano rifugi contro i bombardamenti. Chi erano coloro
che, nel 1924 circa, costruirono questo edificio? Perché l’hanno
abbandonato? Quali bombardamenti temevano? Inquieta il fatto che gli ingegneri
di una casa così ben costruita abbiano rispettato il moderno pregiudizio
contro le modanature, fino al punto di aver fatto un rifugio come questo, che
mette a dura prova l’equilibrio mentale: gli echi di un sospiro fanno
sentire sospiri vicini, lontani per due o tre minuti di seguito. Dove non ci
sono echi, il silenzio è orribile come quel peso che, nei sogni, non
permette di fuggire.
Il lettore attento può estrarre dalla mia relazione un catalogo di oggetti,
di situazioni, di fatti più o meno spaventosi; l’ultimo è
l’apparizione degli attuali abitanti della collina. È il caso di
relazionare queste persone con quelle che vissero nel 1924? O i costruttori
del museo, della cappella, della piscina sono turisti contemporanei? Non riesco
a credere che una di queste persone abbia interrotto qualche volta Tè
para dos o Valencia, per fare il progetto di questa casa, infestata da echi,
è certo, ma a prova di bombe.
Tra le rocce c’è una donna che guarda il tramonto tutte le sere.
Ha un fazzoletto colorato legato sulla testa; le mani giunte, sopra un ginocchio;
soli pre-natali devono aver dorato la sua pelle; per gli occhi, per i capelli
neri, per il busto, sembra una di quelle bohémiennes o spagnole dei quadri
più squallidi.
Puntualmente aumento le pagine di questo diario, e dimentico quelle che ho rifiutato
di scrivere durante gli anni che la mia ombra dimorò sulla terra. Tuttavia,
quello che scrivo oggi sarà una precauzione. Queste linee permarranno
invariabili, nonostante la fiacchezza delle mie convinzioni. Devo adeguarmi
a quello che so adesso: mi conviene, per la mia sicurezza, rinunciare, interminabilmente,
all’aiuto del prossimo.