È accaduto tutto nella più prevedibile normalità, ma in una forma inaspettatamente benigna. Sono perduto. Nel lavorare a questo giardinetto ho commesso un furioso errore, come Aiace – o qualche altro nome ellenico ormai dimenticato – quando sventrò gli animali; ma in questo caso gli animali sventrati sono io.
La donna arrivò prima del solito. Lasciò la borsa (con un libro mezzo fuori) su una roccia e, sopra un’altra roccia più piatta, dispiegò la coperta. Aveva un vestito da tennis; un fazzoletto, quasi viola, in testa. Si fermò un attimo a guardare il mare, come se fosse addormentata; poi si alzò e andò a prendere il libro. Si mosse con quella disinvoltura che abbiamo quando siamo soli. Passò, andata e ritorno, al lato del mio piccolo giardino, ma fece finta di non vederlo. Non ero ansioso che lo vedesse; al contrario, quando la donna apparve, capii il mio spaventoso errore, soffrii per non poter sottrarre dalla sua vista un’ opera che mi condannava per sempre. Mi tranquillizzai, forse perdendo la coscienza. La donna aprì il libro, posò una mano tra le pagine, continuò a guardare la sera. Non se ne andò fino a quando fece buio.


Adesso mi consolo riflettendo sulla mia condanna. È giusta o no? Cosa devo aspettarmi dopo averle dedicato questa aiuola di cattivo gusto? Credo, con rassegnazione, che l’opera non potesse perdonarmi, se posso criticarla. Per un essere onnisciente, io non sono l’uomo che questo giardino fa temere. Tuttavia l’ho creato.
Nel senso che lì si manifestavano i pericoli della creazione, la difficoltà di gestire diverse coscienze in maniera equilibrata e simultaneamente. Ma a che pro? Queste scuse lasciano il tempo che trovano. Tutto è perduto: la vita con la donna, la solitudine passata. Senza rifugio continuo con questo monologo che a partire da ora è ingiustificabile.
Nonostante il nervosismo, oggi, quando la sera si disfaceva partecipando dell’incontaminata serenità, ho sentito l’ispirazione della magnificenza della donna. Questo benessere mi colse di nuovo durante la notte; sognai un bordello di donne cieche che visitai con Ombrellieri a Calcutta. Apparve la donna e il bordello divenne un palazzo fiorentino, ricco, stuccato. Io, confusamente, esclamai: Che romantico!, piangendo di felicità poetica e di vanagloria.
Ma mi svegliai alcune volte, angosciato per la mia mancanza di meriti nei confronti della rigorosa delicatezza della donna. Non la dimenticherò: dominò il disgusto che le produsse il mio orrendo giardinetto e simulò, pietosamente di non vederlo. Mi angosciava, anche, sentire Valencia e Tè para dos, che un fonografo insistente ripetè fino all’alba.


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